Pianeta K andata e ritorno
dedicato a Eugenio
Pecorella Chiti, medico
(13 gennaio 1930 - 12
luglio 2009)
Era aprile.
Un’amica le
telefonò per dirle che le avevano trovato un piccolo nodulo al
seno. Stava per essere operata. Da amica, e da medico, Irene
cercò di rassicurarla, naturalmente. Subito dopo iniziò una
frenetica ricerca di ogni possibile aggiornamento
sull’argomento. La sua specializzazione era tutt’altro, e in
effetti sapeva solo quanto ricordava dall’università più qualche
articolo letto qua e là sulle riviste mediche. Voleva sapere il
più possibile per poter rispondere alle inevitabili domande
dell’amica, per poterla aiutare.
Ma non era solo
questo. Anche lei aveva fatto una mammografia di controllo
nell’autunno precedente, ma, essendo uno screening pubblico, non
aveva avuto modo di vedere le radiografie, né di parlare con i
colleghi del servizio, non è possibile, non è previsto.
A questo si aggiungeva il fatto che la risposta, di una riga,
non era firmata e la data era sbagliata. Controllo: a due anni.
Si era ripromessa di andare più a fondo, ma una serie di impegni
improrogabili l’aveva assorbita più di quanto avrebbe
desiderato. Per giunta si diceva non essere la solita
pessimista, perché non dovresti fidarti? Se ci fosse stato
qualche dubbio, ti avrebbero avvertito.
La telefonata
dell’amica fu come un detonatore che fece esplodere in lei
un’ansia inspiegabile; una specie di vocina ragionevole ma
martellante continuava a ripeterle fai un altro controllo,
non accontentarti… Era un medico: sentiva continuamente
parlare di malanni, eppure quella strana percezione non l’aveva
mai avvertita.
Pronto? Dott.
Pecorella, ho un problema…
Al Dott. Pecorella
continuava a dare del lei, come quando era andata la prima volta
a farsi visitare da lui che era una ragazzina. Il Dott.
Pecorella aveva studiato con Valdoni, Fegiz, Stipa, e altri di
quel calibro. Aveva operato nel corso dei decenni praticamente
tutti i componenti della sua famiglia.
Non fare nulla,
prima ti visito.
Uscì dal suo
studio tranquillizzata ma con un appuntamento per un’ecografia.
Seguì una mammografia urgente e due giorni dopo era in sala
operatoria.
Iniziò così il suo
viaggio nel pianeta K. Quattro millimetri, solo quattro
millimetri di celluline impazzite, ben nascoste, come se non
volessero farsi individuare. Tutte le informazioni raccolte per
essere d’aiuto alla sua amica, diventarono una fonte preziosa
anche per se stessa. Imparò rapidamente tutta la terminologia
specialistica, il significato di strane sigle, numeri, acronimi.
Complicate classificazioni che riconducevano tutte, nel suo
caso, ad una situazione definibile “tranquilla”, con possibilità
di guarigione vicine al 100%.
Passò l’estate a
fare la radioterapia, prevista dai protocolli per maggiore
sicurezza. Molti colleghi con cui veniva a contatto, ascoltata
la sua storia, la guardavano come se fosse un incrocio tra una
miracolata e una veggente.
Sul pianeta K
c’erano luoghi impervi in cui si trovò ad arrancare
faticosamente.
A luglio ci
furono le giornate più calde dell’anno. In città si erano
registrati i 41 gradi percepiti. In tali condizioni climatiche,
mentre i telegiornali raccomandavano di tenere in casa bambini e
anziani, qualche decina di sventurati era stata convocata, alle
15, per una visita medico-legale.
Anche Irene era lì, le avevano detto che questa era la prassi
per la patologia “048”, per avere diritto ad alcune
agevolazioni, come ad esempio permessi lavorativi per le visite
e le terapie. Una semplice formalità. Aveva preso per buona
l’informazione, senza investigare più di tanto.
L’ambiente adibito
a sala d’attesa era uno stretto corridoio, in cui il sole
entrava implacabile da finestroni le cui veneziane, ricoperte di
sporcizia e ragnatele, erano incastrate, e quindi
inutilizzabili, per il lungo disuso. Al soffitto una misera
ventola riusciva sì e no a spostare un po’ di polvere. Un solo
bagno, per uomini e donne. Nessun cartello, né all’esterno, né
all’interno, che dicesse cosa fare, dove andare. Ogni nuovo
arrivato veniva istruito da chi era entrato in precedenza, e le
informazioni venivano trasmesse per passa-parola. Impiegati
entravano e uscivano continuamente dalle stanze e percorrevano
instancabili i corridoi con dei pezzi di carta in mano, passando
ogni volta in mezzo alle persone in attesa, stravolte e
ansimanti. Una volonterosa addetta alle pulizie, munita di scopa
e straccio, faceva del suo meglio per pulire almeno dove non
stazionava la gente. Si sentì un’impiegata dirle: guarda che
di là siamo invasi dalle formiche.
Ma il bello doveva
ancora venire. Nello stato di quasi collasso in cui si trovava,
dopo un’ora e mezza di attesa, Irene fu finalmente ammessa alla
presenza della “commissione”. Dopo un buongiorno biascicato a
malapena, il “presidente” diede un’occhiata alla documentazione
e, con un tono e un atteggiamento da santa inquisizione, fece
qualche domanda, tendenziosa e inutile, vista l’accuratezza dei
referti medici consegnati, insinuando quasi che la situazione
non fosse abbastanza grave da legittimare la presentazione della
domanda, o almeno abbastanza da disturbarlo. Congedò poi Irene
frettolosamente dicendo che le sarebbe arrivata una risposta a
mezzo raccomandata in una quindicina di giorni.
Irene uscì da quel
luogo stordita, confusamente umiliata: era andata per una
prassi, non chiedeva privilegi, non aspirava ad ottenere una
pensione, e non avrebbe avuto nulla da eccepire se qualcuno le
avesse detto che quanto previsto dalla legge non le spettava. A
casa, passato lo sbigottimento, si disse che non poteva
tollerare di essere trattata come una truffatrice, o una
parassita, con il facile pretesto che di truffatori e parassiti
è pieno questo paese.
Si immerse per
alcuni giorni in un altro luogo impervio: quello delle leggi,
dei regolamenti, dei codici e delle postille. Poi cominciò a
scrivere. Fu un intrecciarsi di lettere, telefonate, incontri,
qualcuno si premurò di chiamarla per invitarla a ritirare il
famoso documento che avrebbe dovuto ottenere “a vista”. Irene
non andò, la radioterapia era terminata, se lo tenessero il loro
prezioso pezzo di carta. Collezionò spiegazioni bizantine,
giustificazioni penose, ma anche delle scuse formali,
paradossali complimenti e demagogici ringraziamenti per il senso
civico dimostrato nel segnalare i disservizi (!).
Altre lettere
seguirono, e altri faticosi incontri, per il problema
“screening”. Pretesa e ottenuta l’indagine eseguita
nell’autunno, e avuta da più parti conferma che “qualcosa” si
poteva già intravedere (qualcosa di non chiaro e definibile, ma
appunto per questo da indagare), riuscì a parlare con alcuni
dirigenti del servizio per esporre quelli che aveva individuati
come difetti del sistema. Ottenne rispettosa attenzione,
solidale comprensione, complimenti per il senso civico, eccetera
eccetera.
Chissà se da
allora qualcosa è cambiato.
Quella snervante
battaglia aveva degli aspetti positivi: le consentiva di “fare”
in un periodo in cui erano altri quelli che “facevano”. Su di
lei. Negli stessi mesi, si era trovata a dover portare a termine
lunghe cure dentarie iniziate in precedenza, e complessi
controlli oculistici. In certi giorni aveva l’impressione di
essere un oggetto, un coccetto etrusco appena ritrovato,
continuamente osservato, esaminato, manipolato. Si spogli, si
sdrai, stia ferma. Specialmente “stia ferma”. Era
diventata una campionessa di apnea. E poi le attese. Ogni
visita, ogni indagine, ogni seduta di radioterapia, era
preceduta da interminabili minuti di attesa. “Ognuno ha tanta
storia, tante facce nella memoria, tanto di tutto tanto di
niente…” La vecchia canzone di Gabriella Ferri le tornava alla
mente mentre osservava le persone intorno a lei, nelle medesime
sale di attesa. Su quei volti si poteva leggere l’intero
campionario delle emozioni umane. La paura, la speranza,
l’ansia, la pazienza, lo sconforto, il coraggio. Le donne, si
sa, comunicano con grande facilità, e così, dopo un po’
cominciavano le chiacchiere. Il tempo oggi non è tanto caldo,
le distanze io vengo dalla braccianense, i nipotini
stamattina il piccolo aveva la febbre, gli animali di casa
la mia cagnetta ha fatto 7 cuccioli…ne vuole uno? Quasi
mai si parlava della malattia. Era come un tacito accordo. In
fondo perché parlarne? Era come se appartenessero tutti ad una
società segreta il cui collante era la condivisione di una
verità che solo loro conoscevano. C’era come un invisibile
spartiacque tra chi sapeva e chi no. Tra chi sapeva cosa
significa avere il cancro, e chi no.
Eppure Irene non
era certa di saperlo. A volte le sembrava quasi di non essere
spaventata abbastanza. Forse era incosciente, si diceva. Forse
stava attuando un processo di negazione. Un giorno si sarebbe
svegliata e si sarebbe resa conto e sarebbe stata sconvolta e…
e… e…
I mesi passavano e
nulla di tutto questo accadeva. Era una realtà come le altre. O
quasi. Tutto, se protratto abbastanza a lungo, diventa una
routine.
Certo, bella
forza, il suo tumore era talmente piccolo! Tutti dicevano che se
n’era accorta in tempo, che poteva stare tranquilla, che era
guarita, che adesso aveva le stesse probabilità di chiunque
altro di ammalarsi di nuovo.
Alla prima visita
di controllo, Irene volle sapere dal Dott. Pecorella se davvero
se ne fosse accorto subito, e come. Sai, non ne avevo la
certezza, però c’era qualcosa che non andava. Spesso non sono
veri segnali, è come una specie di intuizione. Già, una
volta si diceva l’“occhio clinico”. Che fine ha fatto l’occhio
clinico?
E che nome dare a
quello strano inquietante stato d’animo che l’aveva spinta a
nuove indagini? Intuito? Sesto senso? O magari semplice sfiducia
nelle strutture pubbliche? Irene aveva lavorato in diversi
ospedali prima di scegliere la libera professione; sapeva bene
che, pur intorno a persone competenti, serie ed affidabili,
spesso aleggia il pericoloso germe della disorganizzazione,
della fretta, dell’approssimazione. E la devastante infezione
chiamata Burocrazia, con il suo corteo di protocolli rigidi,
regolamenti ottusi, e deresponsabilizzazione individuale.
Cominciò a parlare
di quanto le era accaduto, a scrivere degli articoli, voleva
mettere in guardia più persone possibili contro il rischio delle
false sicurezze. Soprattutto quelle determinate dalle macchine.
Le macchine non bastano, bisogna tornare ad insegnare,
apprendere, praticare la semeiotica. Questo il messaggio. Voleva
che la sua esperienza fosse utile a qualcuno.
La consapevolezza
di essere un pesciolino piccolo piccolo al cospetto dell’enorme
balena “sanità pubblica” se da un lato la deprimeva, dall’altro
le appariva come una delle tante sfide che si era trovata a
fronteggiare. E comunque fare qualcosa era meglio che non fare
nulla.
Ogni tanto cercava
di riepilogare, ma insieme a dei ricordi lucidissimi aveva come
dei momenti di blackout. Ricordava perfettamente la rabbia di
dover affrontare un intervento in un momento in cui si sentiva
benissimo e aveva un sacco da fare; aveva già subìto interventi
in passato, ma erano motivati da situazioni dolorose che non
vedeva l’ora di risolvere. Ricordava la giornata passata in
clinica guardando gli alberi fuori dalla finestra in attesa
delle 17, ora prevista per l’intervento. La preoccupazione di
quello che sarebbe risultato all’esame istologico e il rimpianto
delle cose che avrebbe lasciato incompiute se… Aveva preferito
star sola in quelle ore, come sempre, davanti alle prove
difficili. Il coraggio le bastava appena per se stessa. E poi
l’ingresso in sala operatoria: Dott. Pecorella, qualsiasi
cosa riteniate necessario fare, per me va bene. E ancora il
risveglio, sotto la grande lampada chirurgica, gran dolore e
gran freddo. C’era? C’era, c’era, ma stai tranquilla,
era piccolissimo, solo 4 millimetri, linfonodi liberi. E’ tutto
a posto.
Poi il blackout
del periodo postoperatorio, in attesa dell’esame istologico
definitivo, punteggiato da altre visite, scintigrafia, moc,
ecografie, analisi di laboratorio, dentista, oculista, oncologo.
Ricordava solo un correre continuo da un posto all’altro, nel
traffico per fortuna rarefatto dell’estate romana.
I mesi successivi
furono di normalizzazione, se così si può dire; uno strano
periodo trascorso a rimettere in ordine la casa, a riorganizzare
gli impegni, a riallacciare rapporti un po’ allentati. Con una
grande stanchezza “post-partum”. Un processo lungo e lentissimo
in cui la cosa più difficile era rendersi conto che non c’era
nessun appuntamento a cui doversi precipitare, nessuna analisi
da fare, nessuna risposta da attendere. Solo le normali cose di
tutti i giorni, il lavoro a studio, le incombenze domestiche, le
micie da accudire e coccolare. La molesta assillante impressione
di non riuscire ad incastrare tutti i vari impegni che il
viaggio nel pianeta K aveva comportato le restava ancora
appiccicata addosso; insieme con qualche fitta nella zona della
ferita che si presentava imprevista e fulminea, per lo più
quando cambiava il tempo, come a ricordarle quello che le era
capitato. Il Tir che l’aveva investita.
La sensazione
dominante era lo sconcerto per aver vissuto in un modo
fondamentalmente sereno una realtà che solo qualche mese prima,
a pensarla, l’avrebbe terrorizzata. La terrorizzavano parole
come quadrantectomia, percepita come un’orribile menomazione.
Poi si guardava allo specchio e faceva davvero fatica ad
individuare il cambiamento. Merito certo delle vecchie mani
fatate del Dott. Pecorella. Ma, a ripensarci, mai avrebbe
immaginato che anche esteticamente il risultato potesse essere
così eccellente. La radioterapia, altro spauracchio, si era
rivelata del tutto affrontabile, solo pochi minuti di scomoda
immobilità, ed effetti collaterali meno apprezzabili di una
banale scottatura solare. Insomma, sua madre, esperta di
proverbi, avrebbe detto: il diavolo non è così brutto come lo si
dipinge.
L’ultimo giorno
dell’anno confezionò un pupazzo di cartone e carta crespa
colorata, con un mantello e un cappellone che ne copriva la
faccia disegnata col pennarello. In una gerla che gli fissò alle
spalle mise una pagina della cartella clinica con la diagnosi, i
bigliettini del parcheggio dell’ambulatorio, gli emocromo
settimanali, un foglio con dei quadretti numerati che aveva
sbarrato giorno per giorno, per ogni giorno di radioterapia.
Come i carcerati sbarrano i giorni che li separano dalla
libertà. A mezzanotte, in terrazza, tra i bagliori dei fuochi
artificiali tutto attorno, gli diede fuoco e scoppiò a piangere.
Finalmente! Allora era “normale”! Allora la paura, anche per
lei, da qualche parte, c’era stata! C’era stata, ma lei era
stata più forte.
Sapeva
perfettamente – era il suo mestiere! - quanto sia rilevante il
modo soggettivo di guardare agli eventi per determinarne il
significato. Ma si rendeva conto per la prima volta di quanto
fossero davvero preponderanti, nella loro irrazionale
inconfutabilità, le credenze che si hanno su certe situazioni,
rispetto alla stessa realtà vissuta nel concreto. Un po’ come
la paura del dentista: chi non è più giovanissimo sa che solo la
parola “dentista” evoca paure incontenibili, ereditate dalle
generazioni precedenti, quando le anestesie lasciavano molto a
desiderare. Poco importa se adesso non si sente più nulla; la
stupidissima paura resta. I ragazzini di oggi, non avendo visto
il film Il Maratoneta, affrontano il trapano senza scomporsi.
Forse le nuove
generazioni impareranno a non aver più paura di una parola,
anche quando la parola è cancro. Perché di cancro si può morire.
Si muore pure di infarto, di incidente stradale, o perché al
vicino di casa salta in aria la caldaia.
Ma dal cancro si
può anche guarire. Come da tante altre malattie. E se non si
riesce a guarire, ci si può convivere a lungo, come con tante
altre malattie croniche, che non guariscono ma possono essere
curate e tenute sotto controllo con una qualità di vita più o
meno buona. Il diabete non guarisce, in alcuni casi può essere
molto difficile da sopportare, ma il suo nome non terrorizza. E
così è per l’artrite, per il morbo celiaco, per la bronchite
cronica. Forse un giorno anche la parola cancro non risveglierà
più terrori ancestrali. Ed è fondamentale che questo passaggio
avvenga presto, perché gran parte della sofferenza, in una
malattia, non è data dal dolore fisico, o dalla preoccupazione,
ma proprio dalla paura che può diventare essa stessa una
malattia, la peggiore di tutte. Una malattia che attanaglia il
respiro, immobilizza, non fa vivere.
Quindi è
essenziale, è vitale cercare di non spaventarsi di fronte alle
parole, non rimandare i controlli consigliati, non perdere tempo
se è necessario agire. Se le statistiche dicono il vero, una
donna su quattro e un uomo su tre avranno almeno una volta nella
vita a che fare con un tumore. E’ il prezzo che si paga
all’allungarsi dell’esistenza. In attesa che la scienza riesca
a prevenirli, curare i tumori dovrebbe diventare come curare le
carie. Con la stessa invidiabile indifferenza dei ragazzini di
oggi.
E bisogna
parlarne. Parlarne e scriverne, finché il tabù verrà smontato
pezzo per pezzo. Un tabù che tocca quasi tutti, a cominciare
dagli stessi operatori sanitari. Come spiegare altrimenti il
ricorso sistematizzato a certe procedure automatiche e
impersonali; come giustificare certi atteggiamenti scostanti,
indifferenti o duri di alcuni medici, dirigenti, tecnici, se non
con il desiderio di allontanare da sé il timore di qualcosa che
può colpire chiunque, in qualunque momento? C’è molto da
lavorare.
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