
IL PRISMA 9
.. l’originalità e l’autonomia di chi pensa ad un problema con la
mente
sgombra da preconcetti e schemi rigidi...
... cercare di vedere, di volta in volta prendendo
spunto dall’attualità, almeno un altro lato – oltre a quello più visibile –
di un immaginario
prisma
che
può servire a rappresentare, simbolicamente, situazioni, temi, concetti,
frequentemente presenti nei nostri discorsi, sui giornali, nelle
televisioni...
La
strategia della scorciatoia
Ieri ho
rivisto una vecchia cassetta sui campionati del mondo di
pattinaggio artistico su ghiaccio. Come sempre, questo
spettacolo incredibile di bellezza, forza, eleganza mi ha
dato una grande gioia. La stessa gioia che provo quando
assisto ad un buon spettacolo teatrale o quando ascolto
musiche meravigliose già immortali o destinate a diventare
tali.
Quante
ore, giorni, anni a volte, ci sono dietro a tali
risultati? Quanta fatica, sudore, tenacia, amore?
E’
buffo come anche nella lingua, l’essere umano riesca ad
essere incoerente. Prendiamo la parola
PERFEZIONISTA: lo Zingarelli 2000 recita “chi pecca
di perfezionismo”. PERFEZIONISMO:
“aspirazione a raggiungere, nell’ambito della propria
attività o del proprio lavoro, un impossibile ideale di
perfezione”. Ma per PERFEZIONARE
si intende: “rendere completo in ogni sua parte, portare ad
un elevato grado di compiutezza”. Infatti
PERFEZIONAMENTO significa
“completamento di qualcosa in tutte le sue parti,
miglioramento, specializzazione” (spesso usato
nell’accezione di corso o scuola di approfondimento). In
altri termini, l’opinione collettiva ritiene positivo il
voler migliorare, approfondire, ma il termine che connota
l’atteggiamento di chi ha questa aspirazione ha una
sfumatura decisamente negativa. Prova ne è che non esiste un
appellativo che indichi la persona “che fa le cose bene”,
anzi al meglio possibile, volendo dare per scontato che “la
perfezione non esiste”. Su quest’ultimo concetto ci sarebbe
molto da discutere, dal momento che un conto è parlare di
perfezione morale, un conto è parlare di perfezione relativa
al raggiungimento di obiettivi specifici e ben delimitati.
Ad esempio, prendiamo un percorso ad ostacoli in un concorso
ippico: il cavallo che riesce a saltare tutti gli ostacoli,
senza sfiorarne nemmeno uno, che non sbaglia percorso, che
fa un tempo migliore degli altri, ha raggiunto la
perfezione, ovviamente in relazione ai criteri fissati
convenzionalmente nell’ambito di quel preciso contesto. E’
chiaro che il discorso non riguarda l’eleganza, o lo stile,
o la bellezza dell’animale (o del fantino), perché in quel
caso entrano in gioco categorie ben difficilmente definibili
e tanto meno quantificabili, se non nelle griglie ristrette
costituite da precise caratteristiche che vengono elette a
criteri di valutazione convenzionalmente accettati e
condivisi. Non mi intendo di cavalli, ma immagino che sia
più elegante un cavallo che non scalcia e non scuote la
testa, e che delle zampe lunghe ed elastiche siano più belle
di zampe tozze e rigide (ma forse sto applicando dei criteri
un po’ troppo umani!).
Tornando al punto, penso che l’essere umano trovi una grande
soddisfazione nel fare le cose bene,
nel senso di riuscire ad esprimere il massimo delle proprie
potenzialità, di raccogliere sfide e vincere battaglie, al
punto tale che quando non è la vita a presentare le
occasioni, è l’uomo stesso che le cerca e le inventa, per
scoprire e superare i propri limiti.
L’immensa felicità dipinta sul volto di quei pattinatori, o
di un Michael Flatley al termine del suo eccezionale
spettacolo, o di un Cocciante quando parla commosso della
sua Notre Dame, non è data dalla popolarità o dal successo
di pubblico (falso obiettivo agognato dalla maggior parte
degli adolescenti di oggi): è la stessa stupenda e stupita
gioia che si legge sul viso di un bambino che è riuscito per
la prima volta ad allacciarsi le scarpe, o del giovane che
riceve i complimenti dalla commissione di laurea, o della
casalinga che ha realizzato una meravigliosa torta. La cosa
che accomuna tutte queste situazioni è la soddisfazione che
deriva dalla consapevolezza di aver raggiunto un risultato
che è il massimo che si potesse ottenere, relativamente al
contesto ma soprattutto alle proprie capacità e possibilità.
Ultimamente ho la sgradevole impressione che pensarla in
questo modo sia giudicato stupido e démodé.
La
tendenza attuale più diffusa è quella di faticare il minimo,
giudicando poi il risultato (qualunque esso sia)
eccezionale, incredibile, fantastico. Come se bastasse
ornare con dei superlativi una cosa brutta, mediocre,
raffazzonata per trasformarla in un capolavoro. E il dramma
è che avendo perduto molti termini di paragone, veramente
questa società si sta sempre più convincendo che qualunque
cosa sia sufficiente per pretendere il “giusto”
riconoscimento altrui: non importa se un cantante
canticchia, o un ballerino ballicchia, o un giornalista
ignora allegramente l’esistenza di grammatica e sintassi, o
un politico non si sogna nemmeno lontanamente di
vergognarsi - come dovrebbe! - della propria ignoranza e
incompetenza.
Ancora
una volta, le parole, invece di aiutare a chiarire, aiutano…
la confusione. Tempo fa ho sentito rivendicare il titolo di
“artista” persino da una cubista! Ma davvero basta fare un
mestiere di spettacolo per essere definiti “artisti”? Si è
cantanti, anche bravissimi, si è attori, anche eccelsi, si
può essere ottimi scrittori, eccellenti musicisti, ma
gli artisti sono pochi e
non può che essere così, altrimenti come potremmo definire
Mozart o Picasso o Eduardo?
Ma
veniamo alla vita dei comuni mortali: gli studenti ad
esempio, anche quelli bravi, fanno acrobazie per studiare il
minimo indispensabile, per contrattare le interrogazioni con
gli insegnanti, per strappare sconti su compiti ed esami,
come se la finalità dello studio non fosse quella di trarne
il massimo vantaggio possibile per la propria vita, il
proprio futuro, ma sia invece di arrivare ad uno straccio di
promozione che porti presto ad uno straccio di pezzo di
carta, senza troppe rotture di scatole. Chi non è più
giovanissimo ricorda che persino le giuste – inizialmente –
rivendicazioni del ’68 sono state poi strumentalizzate per
ottenere un avvilente, penoso “18 politico”: forse è
cominciata proprio nell’epoca dei giovani “impegnati”,
paradossalmente, questa assurda corsa al
disimpegno. Lo stesso
disimpegno che molti di loro, una volta diventati genitori,
hanno trasmesso alle generazioni più giovani. Queste
persone, apprezzabilissime per altri versi, pensano con
incrollabile ostinazione che per formare un figlio basti
proteggerlo da ogni problema, piazzarlo davanti all’ultimo
modello di play-station, purché non disturbi, regalargli il
motorino se – bontà sua – riesce a farsi promuovere, o
magari predicargli di continuo quello che deve o non deve
fare, senza curarsi minimamente di come la propria
filosofia di vita possa essere
recepita ed assorbita.
Quanti
posti di lavoro sono stati ottenuti tramite raccomandazione
o concorsi truccati? E quanti diplomi, e addirittura certe
lauree, sono stati conseguiti seguendo delle scorciatoie?
A
questo punto io chiedo: almeno queste persone, una volta
raggiunto quello che vogliono, sono contente? Sono
soddisfatte di sé? Dal mio particolare angolo di
osservazione, direi proprio di no. E allora cos’è che non
va? Perché questo inquietante diffondersi - a tutti i
livelli - di questa strategia della
scorciatoia? Perché privarsi della gioia e della
soddisfazione che possono derivare da un lavoro ben fatto,
dalla conoscenza approfondita di un qualsivoglia argomento,
dalla competenza vera e non approssimativa o millantata su
qualcosa che ci interessa veramente?
Alcuni
pensano che il giudicare più gratificanti i traguardi
raggiunti con fatica rispetto a quelli “regalati” sia un
fatto culturale (quella cultura molto cristiana tutta
improntata al sacrificio) e come tale lo criticano e lo
relativizzano. E se invece fosse una necessità “intrinseca”
dell’essere umano quella di mettersi alla prova e di trarre
soddisfazione dai risultati ottenuti con i propri sforzi? Si
potrebbe ipotizzare che tale meccanismo è indispensabile
all’evoluzione, oppure che fa parte di un disegno superiore
e complesso, di cui i credenti di varie fedi pensano di
conoscere l’artefice; oppure ci si potrebbe appellare alle
varie teorie psicologiche che studiano la forza dell’Io o
l’autostima. Chissà...
Lascio
queste difficili risposte a chi ne sa più di me. Io posso
solo suggerire, ed è il mio augurio
sincero a tutti per il nuovo anno: provare per
credere...
(Dicembre
2003)
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