La panchina
Lo scintillio del sole
sull’acqua attirava il suo sguardo come la luce di un faro
lontano attira i naviganti. Era seduto su una panchina di
legno, all’ombra di un vecchio leccio. L’aria aveva quella
leggerezza data da una temperatura né troppo calda, né
troppo fresca, che è il contrassegno di certe rare giornate
di primavera. Anche i profumi, appena accennati, di
foglioline nuove e fiori non ancora sbocciati, sollecitavano
appena le sue narici.
Spostò lo sguardo, quasi a
fatica, da quel punto sfavillante e si alzò. Fare due passi
intorno al piccolo specchio d’acqua era sempre stata, anche
da piccolo, una pausa di serena meditazione tra una corsa
dietro alla palla e un giro in bici, quando della parola
“meditazione” non conosceva neppure l’esistenza.
Quell’esaminare i minimi particolari di quanto lo
circondava, attivando tutti i suoi sensi, e nel contempo
estraniandosi dalla realtà, era un’abitudine a cui era
affezionato, un viaggiare quasi in un’altra dimensione.
L’acqua cristallina lasciava
trasparire il fondo, con le sue pietre molate, le alghe
giovani e lucide che si cullavano nel movimento dolce
provocato dal pinnare tranquillo delle anatre dal collare
che si avvicinavano speranzose, in attesa di qualche
pezzetto di pane, tra frotte di piccoli pesci che si
spostavano velocemente appena sotto la superficie.
Più in là, in un punto
equidistante dalle rive come il perno di un compasso, due
coppie di cigni galleggiavano con altezzosa indifferenza,
sovrani al centro del proprio regno.
Sulla riva, tartarughe piccole
e grandi si confondevano con le rocce, immobili e
sonnacchiose, intente al
loro bagno di sole.
Il terreno intorno, verde di
erbetta appena nata, era interrotto da cespugli, alcuni dei
quali, come scavati al centro, proteggevano nidi da cui
provenivano pigolii lontani e misteriosi.
Alcune oche avevano già
presentato i propri piccoli in società e li osservavano
scoprire a cosa serve il becco, e quali tesori può
nascondere una zolla di terra. Queste famigliole di penne e
piume erano un’attrazione per i bambini che si fermavano a
fissarli con faccette meravigliate e felici, piene dello
stesso stupore eccitato dei pulcini che guardavano.
Nell’isolotto al centro del
lago il tempio di Esculapio, piccolo e armonioso, spiccava
con il suo candore sullo sfondo di tutte le tonalità di
verde. Il verde delle piante intorno e di quelle che si
specchiavano nell’acqua.
Si fermò incantato a
contemplarlo, come centinaia di altre volte, con le mani
appoggiate sulla recinzione di legno, e quel contatto, così
familiare, gli diede una strana sensazione di sicurezza e
calma. Sembrava quasi che la pelle ricordasse quel ruotare
dei palmi intorno al paletto orizzontale che da bambino gli
permetteva con un capitombolo di trovarsi dall’altra parte,
quella proibita. Per un attimo, prima di capitombolare
all’indietro, solo un attimo di elettrizzante paura come se
al di là si nascondessero chissà quali pericoli, oltre alla
sgridata della mamma.
Continuando il giro, arrivò in
un punto in cui i salici formavano dei tendaggi sul prato
punteggiato di margherite e ranuncoli, creando un’ombra
leggera e una luce verdolina, in cui veniva voglia di
chiudere gli occhi e riposare. Altri rami si allungavano a
bere, nell’acqua trasparente, invitante.
Fu allora che una figura
bellissima emerse dal lago e lo invitò silenziosamente a
seguirlo. Lui attraversò il prato ed entrò nell’acqua. Poi
si immerse e si rese conto che il lago era più profondo di
quanto avesse mai creduto. Nuotava dietro a quella figura
chiara, e non aveva bisogno di emergere per respirare;
nuotava nell’acqua fresca e luminosa, tra pesciolini
argentei, grigi e rossi, e qualche tartaruga che lo guardava
incuriosita. Vicino all’isolotto, lasciò a malincuore che
la testa emergesse e, guardando verso il tempio, si accorse
che una delle due ninfe, quella a sinistra, non era più sul
suo piedistallo. Per nulla sorpreso, tornò ad immergersi in
quel liquido accogliente e rassicurante, sentendosi in
totale armonia con la natura e con sé stesso, senza ansie e
paure, senza dubbi o domande. Il tempo si era dilatato
insieme allo spazio e non aveva alcuna importanza il come,
il dove, il quando, e il perché. La sua mente riposava in
uno stato di pace assoluta e immagini di perfetta e
ineffabile bellezza danzavano davanti ai suoi occhi, luci,
colori, suoni, sconosciuti e familiari ad un tempo.
All’improvviso, la ninfa si
girò verso di lui e gli prese la mano, guidandolo verso la
superficie. Emersero insieme, in una luce accecante, bianca,
e un freddo terribile si impadronì di lui, fino a farlo
tremare e battere i denti in modo incontrollabile. Poi fu il
buio. E di nuovo la luce, e ancora il buio. Per due, tre,
quattro volte. Avrebbe voluto tornare ad immergersi in
quell’acqua cristallina e accogliente, ma era come se il suo
corpo non volesse rispondergli. La sua mano era stretta
ancora nell’altra mano ed aveva la sensazione che lo
trattenesse, unico contatto riconoscibile, nella marea di
sensazioni bizzarre e indefinibili che lo avvolgeva e lo
travolgeva.
Dopo un tempo infinito,
inattesa e violenta lo assalì la nausea. E il dolore, il
malessere, lo sgomento. Con uno sforzo terribile aprì gli
occhi. Sua moglie gli teneva la mano, e lo guardava con un
sorriso bagnato dalle lacrime.
Nei giorni successivi gli
raccontò che aveva avuto un ictus; era stato notato da
alcune persone accasciarsi su una panchina di Villa
Borghese, e portato immediatamente all’ospedale. Poi c’erano
stati tre arresti cardiaci, e alcuni giorni di coma. Però
era stato molto fortunato: con le terapie giuste si sarebbe
rimesso completamente.
Dopo qualche mese, tornò al
laghetto. L’acqua era una fanghiglia di colore incerto, il
terreno intorno mostrava i segni di un lungo abbandono.
Piante e cespugli avrebbero avuto bisogno di cesoie e cure.
Le staccionate erano da riparare. E persino gli uccelli
erano pochi e il loro piumaggio non proprio splendente di
salute. Di cigni neanche l’ombra, mentre si notava un numero
incredibile di tartarughe, dentro e fuori dall’acqua.
La “sua” ninfa sedeva quieta
mentre con il braccio destro versava un filo d’acqua
dall’anfora al suo fianco.
Lui si sedette sulla panchina,
e pianse.
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