DolorosaMente
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La sofferenza psicologica è insita nell’uomo e va dalle gravi malattie
mentali a quelle situazioni di disagio che tutti, più o meno,
abbiamo sperimentato o di cui abbiamo
comunque sentito parlare
come stress, ansia, panico, fobie.
Il libero arbitrio
Una
domanda che spesso mi pongo e che è un po’ sempre in
sottofondo, come certe musichette fanno da sottofondo alle
trasmissioni radio o televisive, è la seguente: Quando
comincia la
responsabilità di un individuo, considerando tutti i
possibili impedimenti ad un sano ed equilibrato sviluppo
della personalità?
Se un
individuo ha avuto seri problemi nell’infanzia e/o
nell’adolescenza, e diventa adulto portandosi appresso delle
problematiche non risolte, e sta male, e fa star male chi
gli sta accanto, è responsabile
di quanto deciderà di fare o non fare? Fino a che punto è
responsabile? Da quale momento in poi diventa il
protagonista delle proprie scelte? Cos’è che fa la
differenza tra due persone simili, per età, esperienze, e
problematiche? Perché una decide di fare qualcosa, capire,
combattere, trovare una soluzione, eventualmente cercando un
aiuto, e un'altra sembra che neppure si accorga dei propri
problemi?
In
realtà, quasi tutti coloro che hanno dei problemi potrebbero
avere delle valide spiegazioni per essere come sono: i
genitori, il tipo di cultura, l’epoca storica, le
circostanze più o meno avverse verificatesi, ecc. E
naturalmente quelli prima di loro hanno le loro
giustificazioni, dello stesso genere: genitori, cultura,
epoca, contesto… Ma allora perché qualcuno decide che è il
momento di spezzare questa catena? E’
meritevole chi si sforza di cambiare le cose,
oppure è solo fortunato? E chi non si sforza di farlo, ne è
responsabile oppure proprio non gli è possibile?
Prendiamo un individuo violento. Quasi sempre ha avuto un
genitore violento; ha appreso come unica (o quasi) modalità
di relazione con gli altri, la violenza. Quindi litiga coi
vicini e coi colleghi, aggredisce la moglie, picchia i
figli. Come è possibile che non si renda conto che esistono
altri modi di relazionarsi? Non conosce altre persone? Non
vede come si comportano gli altri in situazioni simili? Come
mai non scatta il confronto? Come dobbiamo considerare la
capacità di autocritica,
come un fatto casuale, come un dono del cielo?
Vorrei
qui ragionare su una delle tante ipotesi possibili, che
appunto non è più di un’ipotesi, perché comunque da essa
scaturiscono altre domande.
A
parità di fattori come l’intelligenza, le opportunità, le
possibilità anche pratiche di informazione, conoscenza, ecc.
e quelle che si chiamano occasioni, l’elemento
dirimente potrebbe essere l’umiltà.
Se si riesce ad ammettere che si può aver bisogno di
qualcuno, o che qualcun altro potrebbe aiutarci, o che
possiamo sbagliare laddove un altro può aver ragione, quasi
sempre è possibile fare qualcosa. Per cominciare, è
possibile imparare a vedere di sé e della propria situazione
aspetti che è molto difficile vedere dal di dentro, ma che
dall’esterno possono apparire chiarissimi. E’ cioè possibile
acquisire la consapevolezza
di ciò che non va, a cui segue inevitabilmente la voglia di
reagire. Voglio dire, ognuno di noi ha qualche persona di
cui si fida, a cui vuol bene, che stima e in cui ha fiducia:
ora, se questa persona, (o magari più di una persona), ci fa
notare qualcosa che ci sembra strana, estranea, che ci
sembra non ci appartenga, il primo impulso è quello di
negare, di respingere. Ma è anche possibile che in un
secondo tempo ci ripensiamo, ci riflettiamo, e cominciamo a
chiederci: “e se avesse ragione?”. E’ possibile che da quel
momento cominciamo ad osservarci un po’ meglio da un punto
di vista diverso. E’ anche possibile che accettiamo di
discuterne con quella stessa persona. Tutto questo è molto
costruttivo, salutare, e può rivelarsi a volte molto utile.
Se
invece si è convinti di sapere tutto di sé stessi, se si
pensa che nessuno sia in grado di capirci e soprattutto di
aiutarci, se si è convinti di avere sempre ragione e di non
sbagliare mai, va da sé che è impossibile qualsiasi tipo di
autocritica e men che meno di
cambiamento.
Ma,
ammesso che l’umiltà sia davvero un elemento importante –
anche se non l’unico – scatta di nuovo la domanda: chi non è
capace di essere umile, ne è responsabile?
E’
chiaro che un paranoico, per definizione, non
riesce a fidarsi di nessuno. Ma, escludendo questa
particolare forma di patologia, si sa che ci sono persone
che ammettono i propri problemi, e persone che non li
ammettono, tra gli ansiosi, tra i depressi, tra gli
ossessivo-fobici, ecc. Una volta si usava, per distinguere
le nevrosi dalle psicosi, proprio il criterio della
consapevolezza, ma, senza entrare nel campo delle patologie
gravi, è evidente che il grado di consapevolezza è spesso
indirettamente proporzionale all’importanza dei problemi.
Considerazioni di questo tipo possono sembrare speculazioni
puramente accademiche, ma possono avere – anzi hanno – delle
conseguenze anche sul piano pratico. Per esempio, in campo
legale, è nota la difficoltà di stabilire se un certo
omicida fosse o no in grado di "intendere e volere" al
momento del delitto. In un certo senso la
Legge è costretta a
semplificare: dal momento che non si può entrare nella mente
altrui, ci si deve necessariamente basare su elementi molto
concreti. Quindi, se si riesce a dimostrare che un individuo
sa che uccidere è male e
ciò nonostante uccide ugualmente, per la Legge è colpevole.
Ma la
Psicologia vorrebbe,
PresuntuosaMente, andare al di là di questo e capire un po'
di più.
Il
cammino sarà lungo.
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