DolorosaMente
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La sofferenza psicologica è insita nell’uomo e va dalle gravi malattie
mentali a quelle situazioni di disagio che tutti, più o meno,
abbiamo sperimentato o di cui abbiamo
comunque sentito parlare
come stress, ansia, panico, fobie.
DO ut DES
Una delle difficoltà
nelle comunicazioni interpersonali è dovuta alla convinzione
che aspettarsi qualcosa in cambio di qualcosa sia
riprovevole. Nonostante
l’accezione negativa spesso attribuita al “Do ut des”, in
realtà non c’è scambio sociale che non preveda una “restituzione”.
Userò questo termine, d‘ora in poi, non nel suo significato
tecnico in psicologia, ma per indicare qualunque reazione ad
un messaggio comunicativo.
Uno
sguardo, ad esempio, può avere moltissimi significati e può
prevedere moltissime reazioni; uno sguardo benevolo viene
quasi sempre ricambiato con uno sguardo benevolo; uno
sguardo di interesse può suscitare interesse oppure
fastidio, a seconda che venga gradito o meno; uno sguardo di
rimprovero può essere più duro di una parola e provocare
sguardi di rabbia, o al contrario di vergogna. E così via.
Si crea cioè il “contatto visivo”,
una forma di comunicazione non verbale, ricca di contenuti e
sfumature forse quanto quella verbale. Quando invece uno
sguardo viene evitato, se cioè la persona a cui lo sguardo è
indirizzato, si comporta come se la persona inviante fosse
trasparente, il contatto non avviene e si crea subito una
situazione di imbarazzo, come quando l’impiegato allo
sportello fa finta di non vederci. Non è un caso che persone
con disturbo autistico, che presentano appunto questa
caratteristica, siano motivo di disagio per chi non ne ha
conoscenza.
Se
questo accade nella comunicazione non verbale, tanto più
accade nelle altre forme di comunicazione. Se ci rivolgiamo
a qualcuno per chiedere un’informazione, ci aspettiamo che
ci risponda. Sì, lo so, sembra ovvio. Ma non lo è. Lo
diventa solo perché rispondere ad una domanda fa parte delle
nostre regole sociali, e
quindi lo diamo per scontato. Se facciamo una cortesia, ci
aspettiamo un grazie; se cerchiamo qualcuno e non lo
troviamo, ci aspettiamo di essere cercati; se siamo gentili,
ci aspettiamo un sorriso. Do ut des.
In
psicologia sociale, secondo l’assioma “non
si può non comunicare”, non rispondere non è un
mero atto di maleducazione, è qualcosa di più: è una
disconferma. Significa “tu
non esisti, non meriti la mia considerazione”.
Sui vari segnali e meccanismi della comunicazione però ci
sono interi trattati, corsi, conferenze, seminari. Per chi
volesse approfondire, la disciplina che li studia si chiama
“pragmatica della comunicazione”.
Quindi non mi dilungherò.
Invece
vorrei porre l’accento su quelle piccole “disconferme”
quotidiane che sono diventate un’abitudine anche per persone
per altri versi educate e rispettose. Non c’è insomma
l’intenzione di comunicare “tu non esisti”, per lo meno non
sempre… , ma c’è senz’altro una sorta di noncuranza, un
disinteresse, una superficialità, un allentamento delle
regole sociali, che fa sì che gli appuntamenti o gli impegni
non vengano rispettati e non richiedano neppure delle scuse,
che non si risponda alle lettere o alle mail, che si
dimentichino le promesse. Come dice una mia amica, “la
gente c’ha da fare…”. Il problema è che una mancata
restituzione può essere interpretata in modi diversi dalle
diverse persone, a seconda della sensibilità, a seconda
delle aspettative, a seconda dell’investimento affettivo che
si pone nei rapporti.
I
bambini, così come gli animali, sono molto sensibili e
attenti alle restituzioni. Ma spesso gli adulti non se ne
accorgono, così come i “padroni” di animali da compagnia. E’
arcinoto che un bambino pestifero è solo un bambino che
cerca attenzione: preferisce essere sgridato piuttosto che
ignorato.
Le
carezze mancate, sia quelle fisiche che quelle visive o
verbali, sono piccole ferite che, se troppo frequenti,
possono produrre notevole sofferenza e persino seri disturbi
negli anni successivi.
Anche
molte persone adulte possono mantenere una grande attenzione
alle restituzioni, alle carezze emotive. Secondo Eric Berne
la “carezza” – sguardo, o
parola, o gesto, non necessariamente teneri - è l’unità
fondamentale del “riconoscimento”,
e il riconoscimento è uno dei bisogni fondamentali di un
essere vivente. Significa: tu per me esisti.
Se si
dedica del tempo a qualcuno, non importa in che forma, è
naturale aspettarsi una risposta se non di pari impegno,
almeno di accoglimento. Do ut des. Sarebbe persino meglio
una risposta di non gradimento o di critica, rispetto al
silenzio. Altrimenti viene il fondato sospetto che il
silenzio non sia dovuto al fatto che “la gente c’ha da
fare”, ma che a quella persona non interessi mantenere
quel rapporto, amicale o professionale o di semplice
conoscenza che sia.
C’ è
poi una categoria particolare di persone che amano molto
ricevere carezze, ma odiano darne. Gradiscono di essere
ricordate nelle festività o ai compleanni, avere la vostra
opinione su qualcosa che le riguarda, essere invitate e
partecipare entusiaste a rentrée frivole e sporadiche. Ma
inutile aspettarsi una qualsiasi iniziativa o la benché
minima soddisfazione su qualcosa che sta a cuore a voi.
Spesso, se non di persone egocentriche tout court, si tratta
di uomini ammogliati che, per pigrizia o abitudine, delegano
alle rispettive consorti saluti, auguri, condoglianze,
inviti, insomma le relazioni in genere con parenti e amici.
E’
vero, tutti abbiamo dei difetti e tutto si può accettare,
per affetto o per quieto vivere, ma una buona comunicazione
tra fratelli, tra amici, tra colleghi o vicini di casa, è un
meccanismo che dovrebbe funzionare a doppio senso, ancor
meglio se circolare. Se questo non accade, si avverte un
disagio di cui spesso non si comprende la ragione e ci si
perde in congetture che oscillano dal versante narcisistico
a quello paranoico.
Eppure
è semplice: quando gli scambi di carezze non sono “scambi”
ma sono a senso unico, le relazioni, semplicemente,
finiscono, disperse nel pulviscolo incolore della
quotidianità e dell’indifferenza.
Giugno 2012
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