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DolorosaMente 12

La sofferenza psicologica è insita nell’uomo e va dalle gravi malattie mentali a quelle situazioni di disagio che tutti, più o meno, abbiamo sperimentato o di cui abbiamo

comunque sentito parlare  come stress, ansia, panico, fobie.

 

 

 

DO ut DES

 

Una delle difficoltà nelle comunicazioni interpersonali è dovuta alla convinzione che aspettarsi qualcosa in cambio di qualcosa sia riprovevole. Nonostante l’accezione negativa spesso attribuita al “Do ut des”,  in realtà non c’è scambio sociale che non preveda una “restituzione”. Userò questo termine, d‘ora in poi, non nel suo significato tecnico in psicologia, ma per indicare qualunque reazione ad un messaggio comunicativo.

Uno sguardo, ad esempio, può avere moltissimi significati e può prevedere moltissime reazioni; uno sguardo benevolo viene quasi sempre ricambiato con uno sguardo benevolo; uno sguardo di interesse può suscitare interesse oppure fastidio, a seconda che venga gradito o meno; uno sguardo di rimprovero può essere più duro di una parola e provocare sguardi di rabbia, o al contrario di vergogna. E così via. Si crea cioè il “contatto visivo”, una forma di comunicazione non verbale, ricca di contenuti e sfumature forse quanto quella verbale. Quando invece uno sguardo viene evitato, se cioè la persona a cui lo sguardo è indirizzato, si comporta come se la persona inviante fosse trasparente, il contatto non avviene e si crea subito una situazione di imbarazzo, come quando l’impiegato allo sportello fa finta di non vederci. Non è un caso che persone con disturbo autistico, che presentano appunto questa caratteristica, siano motivo di disagio per chi non ne ha conoscenza.

Se questo accade nella comunicazione non verbale, tanto più accade nelle altre forme di comunicazione. Se ci rivolgiamo a qualcuno per chiedere un’informazione, ci aspettiamo che ci risponda. Sì, lo so, sembra ovvio. Ma non lo è. Lo diventa solo perché rispondere ad una domanda fa parte delle nostre regole sociali, e quindi lo diamo per scontato. Se facciamo una cortesia, ci aspettiamo un grazie; se cerchiamo qualcuno e non lo troviamo, ci aspettiamo di essere cercati; se siamo gentili, ci aspettiamo un sorriso. Do ut des.

In psicologia sociale, secondo l’assioma “non si può non comunicare”, non rispondere non è un mero atto di maleducazione, è qualcosa di più: è una disconferma. Significa “tu non esisti, non meriti la mia considerazione”.  Sui vari segnali e meccanismi della comunicazione però ci sono interi trattati, corsi, conferenze, seminari. Per chi volesse approfondire, la disciplina che li studia si chiama “pragmatica della comunicazione”. Quindi non mi dilungherò.

Invece vorrei porre l’accento su quelle piccole “disconferme” quotidiane che sono diventate un’abitudine anche per persone per altri versi educate e rispettose. Non c’è insomma l’intenzione di comunicare “tu non esisti”, per lo meno non sempre… , ma  c’è senz’altro una sorta di noncuranza, un disinteresse,  una superficialità, un allentamento delle regole sociali, che fa sì che gli appuntamenti o gli impegni non vengano rispettati e non richiedano neppure delle scuse, che non si risponda alle lettere o alle mail, che si dimentichino le promesse. Come dice una mia amica, “la gente c’ha da fare…”. Il problema è che una mancata restituzione può essere interpretata in modi diversi dalle diverse persone, a seconda della sensibilità, a seconda delle aspettative, a seconda dell’investimento affettivo che si pone nei rapporti.

I bambini, così come gli animali, sono molto sensibili e attenti alle restituzioni. Ma spesso gli adulti non se ne accorgono, così come i “padroni” di animali da compagnia. E’ arcinoto che un bambino pestifero è solo un bambino che cerca attenzione:  preferisce essere sgridato piuttosto che ignorato.

Le carezze mancate, sia quelle fisiche che quelle visive o verbali, sono piccole ferite che, se troppo frequenti, possono produrre notevole sofferenza e persino seri disturbi negli anni successivi.

Anche molte persone adulte possono mantenere una grande attenzione alle restituzioni, alle carezze emotive. Secondo Eric Berne la “carezza” – sguardo, o parola, o gesto, non necessariamente teneri - è l’unità fondamentale del “riconoscimento”, e il riconoscimento è uno dei bisogni fondamentali di un essere vivente. Significa:  tu per me esisti.

Se si dedica del tempo a qualcuno, non importa in che forma, è naturale aspettarsi una risposta se non di pari impegno, almeno di accoglimento. Do ut des. Sarebbe persino meglio una risposta di non gradimento o di critica, rispetto al silenzio. Altrimenti viene il fondato sospetto che il silenzio non sia dovuto al fatto che “la gente c’ha da fare”, ma che a quella persona non interessi mantenere quel rapporto, amicale o professionale o di semplice conoscenza che sia.

C’ è poi una categoria particolare di persone che amano molto ricevere carezze, ma odiano darne. Gradiscono di essere ricordate nelle festività o ai compleanni, avere la vostra opinione su qualcosa che le riguarda, essere invitate e partecipare entusiaste a rentrée frivole e sporadiche. Ma inutile aspettarsi una qualsiasi iniziativa o la benché minima soddisfazione su qualcosa che sta a cuore a voi. Spesso, se non di persone egocentriche tout court, si tratta di uomini ammogliati che, per pigrizia o abitudine, delegano alle rispettive consorti saluti, auguri, condoglianze, inviti, insomma le relazioni in genere con parenti e amici.

E’ vero, tutti abbiamo dei difetti e tutto si può accettare, per affetto o per quieto vivere, ma una buona comunicazione tra fratelli, tra amici, tra colleghi o vicini di casa, è un meccanismo che dovrebbe funzionare a doppio senso, ancor meglio se circolare. Se questo non accade, si avverte un disagio di cui spesso non si comprende la ragione e ci si perde in congetture che oscillano dal versante narcisistico a quello paranoico. 

Eppure è semplice: quando gli scambi di carezze non sono “scambi” ma sono a senso unico, le relazioni, semplicemente, finiscono, disperse nel pulviscolo incolore della quotidianità e dell’indifferenza.

 

Giugno 2012

 

 

 

 

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