
IL PRISMA 3
.. l’originalità e l’autonomia di chi pensa ad un problema con la
mente
sgombra da preconcetti e schemi rigidi...
... cercare di vedere, di volta in volta prendendo
spunto dall’attualità, almeno un altro lato – oltre a quello più visibile –
di un immaginario
prisma
che
può servire a rappresentare, simbolicamente, situazioni, temi, concetti,
frequentemente presenti nei nostri discorsi, sui giornali, nelle
televisioni...
Crimini e apparenze
Perché
tanta sorpresa ogni volta che la
realtà contraddice le apparenze?
Dopo un
fatto di cronaca, e negli ultimi tempi ce ne sono stati di
abbastanza sconvolgenti, emerge molto frequentemente la
necessità di normalizzare.
Mi riferisco in particolare a quegli episodi che vedono
coinvolte persone comuni, in situazioni comuni,
persone come noi, immerse, senza lode e senza infamia, nella
comune vita quotidiana.
Non
entrando nel merito dei singoli episodi, è però evidente il
ripetersi di un fenomeno abbastanza irrazionale, ma talmente
usuale che è diventato quasi scontato.
Quando
si viene a sapere che il tale ha strangolato la moglie, o il
tal altro ha sparato ai colleghi, o la figlia del vicino di
casa ha accoltellato una vecchietta, immancabilmente tutti
- parenti, compaesani, amici, conoscenti - dichiarano che
quella era una persona assolutamente
normale, tranquilla, ben educata, e quasi sempre,
persino mite e timida... Superficialità? Paura? Bisogno di
esorcizzare?
Si
possono dare due letture. La prima: lo sbigottimento che
segue alla sorpresa e all’incredulità sottende una
convinzione ben radicata quanto inconscia, e cioè che un
feroce assassino debba avere delle caratteristiche tali da
essere riconoscibili ed
individuabili a prima vista,
come nei cartoni animati. Tutti sappiamo che questo non è
vero, ma ad ogni nuovo crimine, si ripete la litania.
La
seconda: ammettere che una persona ben conosciuta,
tranquilla, mite, normale
-
normale come noi - possa essere capace di commettere un
delitto, significa ammettere che anche noi potremmo in
qualsiasi momento essere capaci di commettere lo stesso
delitto. Prendere atto di non poter controllare il
manifestarsi del “male”, che pure è dentro di noi, dentro
ciascuno di noi, è la causa di quell’insostenibile
sensazione di incertezza ed impotenza che può portare anche
la persona più sensata a negare l’evidenza.
La
reazione immediata è l’allontanamento,
l’esclusione, una reazione difensiva ben conosciuta in
psicologia: quel mostro non fa parte della
mia famiglia, non fa parte del
giro dei miei amici, non è del
mio paese, della
mia città, della
mia razza…
Eppure
la specie umana è una. E la storia dovrebbe averci
insegnato che eroismo e crudeltà, santità ed efferatezza
possono nascere e crescere ovunque, ovunque vi siano esseri
umani.
La
reazione successiva è la ricerca di una
spiegazione che dia un senso e
restituisca ordine a questo scombussolamento insopportabile,
e cosa c’è di meglio della follia?
Sì, quel mostro è nella mia famiglia, è del mio paese, è
della mia razza, ma… è pazzo! Quindi – di nuovo – non ha
niente a che vedere con me! D’altronde la pazzia è sempre
stata motivo di esclusione e di rifiuto da parte dei membri
cosiddetti “normali” della società: in fondo è qualcosa che
ancora ci sfugge, che ancora non siamo in grado di spiegare
completamente e che soprattutto è difficilmente
controllabile.
Riguardo poi alla prevedibilità
di certi eventi, gli addetti ai lavori potrebbero aggiungere
che forse – almeno in alcuni casi - i segnali ci sono, ma,
oltre al fatto che pochi sono in grado di riconoscerli,
dobbiamo ammettere che neppure in questi casi è possibile
prevedere se, quando, e in che modo il male o, se preferite,
la follia si manifesterà.
Purtroppo pensare che qualcosa è
possibile, e persino
probabile, non ci dà la sicurezza che quel
qualcosa accadrà. La mente umana non è sondabile fino a
questo punto.
Credo
però che – tutti - una piccola cosa potremmo farla: essere
più attenti, più attenti soprattutto ai segnali di
sofferenza di un essere
umano, che sia un familiare, un vicino di casa, o un collega
di lavoro. La sofferenza non sempre e non solo si palesa
con lamentele, pianti o richieste di aiuto. Quella è la
sofferenza più visibile, ed anche la più sana. Talvolta la
sofferenza, quella più profonda e disperata, si nasconde,
si traveste da timidezza, da mitezza, da
“normalità”, in un desiderio quasi di
invisibilità. Io sono convinta, è una mia opinione da
altri colleghi condivisa, che per compiere certi delitti
siano necessari un’ostilità, un rancore, ed un
odio talmente grandi che possono scaturire, trovare
le loro radici e la loro linfa, solo in una sofferenza
altrettanto grande.
Il che,
mi preme sottolinearlo, non giustifica e non deve indurre
all’indulgenza. Ma questa è un’altra storia.
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